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Il mio punto di vista

Negli ultimi cinquant’anni, l’arte ha vissuto una trasformazione profonda, ma non sono sicura che sia stata una crescita.

La mia generazione è quella cresciuta negli anni ’80 e '90, una generazione che ha assistito alla nascita del marketing come linguaggio dominante, al culto dell’immagine e alla logica del consumo.

Abbiamo imparato presto che il valore di una cosa dipende da quanto si vende, da quanto si mostra, da quanto “funziona”.

E così anche l’arte è diventata un prodotto.

Si espone, si promuove, si consuma, si dimentica.

Non c’è più un dialogo con la materia, con la lentezza, con l’attesa.

Pittura e scultura, arti del tempo e della mano, sono state spesso ridotte a un’estetica da feed, a un contenuto da scorrere.

Mi chiedo spesso quale sarà la traccia che lascerà l’arte di questi ultimi trent’anni.

Non so indicare una corrente, un movimento, una visione collettiva capace di restare nel tempo. Forse qualcosa si è spezzato nel momento in cui abbiamo cominciato a confondere il valore con la visibilità, la ricerca con la performance, la creazione con la comunicazione.

Forse è arrivato il momento di fermarsi.

Di recuperare un’arte che non cerca l’effetto, ma il senso.

Un’arte che non si misura in “mi piace”, ma in silenzi.

 
 
 

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